Testimonianze

Enzo Siciliano:

Con la propria pittura Enzo Nucci testimonia di un suo mal d’Africa. Ma l’Africa che dipinge non è né l’arso Sahara, né la giungla di un sempre possibile Kilimangiaro scintillante nel sole con le sue nevi leggendarie. Quella di Nucci è soltanto un presagio d’Africa. Nucci dipinge la costa siciliana distesa contro il mare aperto che guarda la Libia, una costa di palme e carrubbi, addossata sotto un cielo che la logora di luce, la disfa nei colori, la fa agonizzare con il peso del suo mito antico. Un continuo ritorno a quel mito, a quei colori, a quella luce è quanto accade sulle tele, sulle carte di Nucci. Appunto, carte e tele sono effetto di un male che rinasce come una nostalgia – favoloso mal d’Africa, mal di odori e di luminosità oniriche, ubriacante, - che poi nostalgico non è, poiché insiste accanito su immagini sempre identiche, dai precisi volumi, le palme, le case calcinate, le colline che si alzano come dorsi di pecore una dopo l’altra, campi incendiati, il cielo di un blu che è paonazzo. Insomma: un male che è un’ossessione. E’ vero che un altro pittore nato su quella costa, parlo di Piero Guccione, sembra altrettanto posseduto della medesima luce, del medesimo mare, gli stessi carrubi che da lontano fanno butterate quelle terre. E’ una luce, è un cielo, sono colori che stremano, divorano, tutto il tuo sguardo e fanno di te uno schiavo. Ma Guccione costringe la propria ossessione a logorarsi, a propria volta, su lunghi tempi di lavoro, ne fa un oggetto, anzi un solvente per i propri colori, per le proprie materie. Nucci, invece, è proprio un soggetto posseduto. Il mare felice che lo assorbe ne tramuta il gesto con effetti di furore teso. Cielo, aria, colori diventano sforzo prolungato delle dita, risultato di una pressione che non molla, o di una delicata ma non irrilevante tachicardia. Spesso, su una tela di Nucci sembra cercarsi una dimensione prospettica. Per esempio, nel Giardino armonioso dell’89: dal basso verso l’alto, l’occhio percorre una profondità che lo spinge dal suolo al cielo che è lontano, oltre le palme, oltre le case che si incontrano a mezza strada nel percorso. In alto: un cielo che si schiarisce di rosa, che si perde nella debolezza di un sogno. In questa illusione prospettica, le case stipate nella calcina che le difende sotto l’azzurro fanno argine, difesa, anche se appaiono scancellate dal ritmo annodato delle palme. Sulle terre e i verdi, l’apparizione evanescente di una architettura sembra voler scardinare il flusso della ammalata nostalgia. Nell’Antica casa baronale del’91, la porta con i vetri opachi al centro del muro, con la sua corsiva storia di cose, di giorni accatastati e in rovina, pare incardinarsi nello spazio per evitare che l’erosione fantasmatica della luce, delle tinte, del rosa morboso che contagia tutto, prevalga. Nel suo mal di Sicilia sud occidentale Nucci pare cercare una difesa nella storia, stipata nel silenzio delle case, dei segni architettonici che le adornano. E la sua pittura, effetto di una furia subita negli occhi, nell’animo, vibra in questa dialettica: fra storia e natura. Guardiamo Paesaggio d’estate del’ 93. Anche qui l’effetto prospettico è evidente. L’occhio deve seguire una costruzione ideale ed emotiva che dal lembo inferiore della tela sale alla volta della casa – finestre decorate da lievi cornici di stucco, che sono tracce di lavoro umano; ed effetto di opera umana è anche la palma che invade il campo d’una porzione della facciata. Il cielo stavolta è schiacciato contro l’orlo superiore dell’intelaiatura. Ma un giallo bruciato, sfibrante, divora, invade l’intera superficie. Un’estrema fissità prodotta dal calore assorbe ogni cosa, impregna anche la calcina della casa come un vapore o una lebbra leggera ma insidiosa. Diciamo che l’estate, il disteso, feroce mezzogiorno dell’estate mediterranea, mette a rischio o rende difficile, drammatica, quella dialettica. La resistenza della storia sulla natura appare senza efficacia. Eppure. Un altro Paesaggio d’estate, datato ’94, collina, terra, un carrubo perduto sotto la piega della collina, una progressione orizzontale di verdi impastati che vanno in parallelo e si allineano alla progressione orizzontale del cielo grigioazzurro, individua una diversa configurazione di quella dialettica. La storia, su questa tela, ha una certezza d’altro tenore. Non ha bisogno di configurarsi nei simboli umani (architetture, case o le palme tanto amate). La pittura di per sé gliela offre. La soluzione, cioè, scarta sulla materia: vince il flusso pittorico su qualsiasi disposizione di figura, - e la figura è la pittura stessa, piuttosto che è immagine di per sé, visione che si riduce alla traccia degli oli stesi, raschiati, sul fondo di base. Un nome è d’obbligo. Bonnard. Bonnard è un maestro cui Nucci ha indiscutibilmente guardato. Per alcuni, penso ad Attilio Bertolucci, Bonnard dovrebbe essere il maestro primo d’ogni pittore. Bonnard non è un pittore aneddotico, è forte pittori di situazioni, e, come ha detto in modo efficace Jean Clair, un pittore che ha avuto l’ossessione di osservare perseguendo sempre e soltanto i modi di osservare, mettendo sulla tela “les donnèes d’une vision psychophysiologique rèelle”. E’ il movimento o sono i movimenti del globo oculare che, al di là di qualsiasi configurazione intellettuale, contano per Bonnard. Il pittore confidò una volta a un critico: “Cerco di dare a un quadro un assetto che sia il più unitario possibile… Bisogna che il quadro sia sostenuto… Non devono esserci buchi…” E su un taccuino scriveva: “ Il quadro è un seguito di taches che si legano fra di loro e finiscono per formare l’oggetto, quel brandello di cosa sul quale l’occhio scorre senza strappi…”. Ha commentato Jean Clair: “Proprio nel parlare di strappi Bonnard ci fa capire che per lui il quadro è tela, materia tessile da rispettare, e che la sua superficie non tollera né lacerazioni né tempi morti”. Ma questa tela da rispettare è fedele poi allo scorrere dell’occhio. La suggestione prospettica è semplicemente la testimonianza della corsa soggettiva che lo sguardo compie sulle cose e le raccoglie depositandole sulla superficie di un tessuto. Storia, natura, sono entrambe contenute nella fusione cromatica delle materie, dei colori usati. Bonnard vince la sua partita su questo. In una chiave simile, i paesaggi estivi di Nucci ci fanno capire che le labili presenze di storia, di umana epifania materiale, vedi il Casolare con palma, o la Villa di campagna, levante, o Masseria, tutti datati al 1990, non sono che flusso pittorico, suggestione di quel capovolgimento della quadratura classica che Bonnard ha portato a sezione aurea, privilegiando l’occhio come strumento puro, uno strumento che procede senza regola e testimonia unicamente se stesso, nella sua totalità e soggettività, storia e natura insieme. “C’è poca gente che sappia vedere, vedere bene, vedere pienamente”, ha sostenuto Bonnard. Nucci, lo dobbiamo dire, sa vedere, e vedere pienamente. Il suo mal di Sicilia è la sua vittoria, - modo esclusivo per catturare la violenza di una luce, di un cielo stupefacenti.

Testo in catalogo – Nucci Pastelli 1981 – 1999, a cura di Marco Goldin, linead’ombralibri, 1999

altri che hanno scritto di lui:

Maria Attanasio, Lucio Barbera, Giovanni Bonanno, Francesca Bonazzoli, Liana Bortolon, Antonio Calabrò, Silvia Carrer,Elvira Cassi Salvi, Martina Corgnati,Philippe Daverio, Silvia Dell’Orso, Fabrizio Dentice, Valentina Di Miceli, Eva Di Stefano, Angelo Dragone, Francesco Gallo, Aldo Gerbino, Carlo Giacomozzi, Guido Giuffrè, Marco Goldin, Franco Grasso, Sebastiano Grasso, Piero Guccione, Paolo Levi, Stefano Malatesta, Dario Micacchi, Angelo Mistrangelo, Elisabetta Muritti, Paolo Nifosì, Laura Oddo, Maria Teresa Prestigiacomo, Giuseppe Quatriglio, Aleardo Rubini, Ruggero Savinio, Anna Maria Schmidt, Giuseppe Servello, Vittorio Sgarbi, Enzo Siciliano, Roberto Tabozzi, Roberto Tassi, Sergio Troisi, Emilia Valenza, Marco Vallora, Marco Valsecchi, Tono Zancanaro.